23-06- 2009
Cari amici,
Se avete letto il mio libro o vi apprestate a farlo, sarete (o diventerete)
abituati alle mie parole. Tuttavia, vorrei aggiungere qualcosa che non compare
sul libro, per far comprendere che questo libro non l’ho scritto per
me, ma per lui: Erwin Maier.
La genesi di questa biografia è stata tra le più controverse e per certi versi inquietante che potessi immaginare, casualità e dolori si sono ribattuti, e potrei dire con un paradosso che è la storia ad aver scelto me.
Un giorno d’estate mi trovavo in vacanza in una località delle Dolomiti, ero con la mia famiglia, tutti a parte me stavano malissimo a causa di un’influenza, io per altri versi stavo persino peggio. Ero oltre gli epiloghi di una storia personale male riuscita, mal terminata, dalla quale non ero capace a svincolarmi. Non vedevo vie di scampo. Ovunque guardassi era angoscia, soffocamento. Ciononostante, potevo uscire sul balconcino del terzo piano e perdermi ad osservare la pioggia - davanti ai boschi ed alle pendici del monte - che in quei giorni non smetteva quasi mai, come fa a volte d’estate rovinando le vacanze ai villeggianti. Ma per me era un lenimento: potevo nascondermi dietro di essa senza fare niente, mi esautorava dal dover agire o proporre qualcosa.
-Cosa mi resta da fare, cosa
potrei fare per non sentirmi così, per avere un’altra speranza.
Qualcosa che mi porti fuori, straordinaria e che non abbia mai fatto, che
abbia il potere di catturarmi e farmi oltrepassare questa fase, che metta
in moto le mie energie positive. - Questa fu l’unica risoluzione che
mi venne in mente, e per essere più concreta, mi figurai di parlare
delle montagne dentro cui stavo, le uniche che avessero compassione di me.
Pensai ai miei amici che amavano la montagna, quelli con cui uscivo ogni tanto
e coi quali mi trovavo bene, e poi alla traccia di quelli che non avevo conosciuto
e che ancor più appassionatamente avevano abbracciato una passione.
Proprio il giorno prima, sotto la Croce dell’Altissimo mi ero fermata
a riflettere su quei nomi incisi che avevo trovato alla base: cosa li aveva
spinti verso la sommità e poi a terminare le loro vite con un volo
fin giù in basso?
Potevo scrivere un’emozionante storia di un uomo della montagna, qualcuno
di particolare; e questa conclusione mi parve un’idea originale, infatti
per me lo era, dal momento che non avevo mai letto nessun libro specifico
sulle montagne né su alcun alpinista, a parte qualche breve guida,
e nemmeno sapevo che nelle librerie e biblioteche esistesse una sezione dedicata.
Il giorno dopo, il 3 agosto del 2000, trovo sulla prima pagina del “Gazzettino”
la notizia della morte di Erwin, la leggo, tutti gli articoli interni, sono
folgorata: quel ragazzo lo avevo conosciuto durante un soccorso che aveva
compiuto su Cima Nove o Cima Dieci o Cima Undici (sono tutte vicine). Era
fuori dell’elicottero davanti al rifugio, gli avevo parlato per cinque
minuti. Il nostro incontro risaliva a qualche estate prima. Non è granché
come ricordo, ma mi rendo conto che è un segnale: ho trovato la storia
praticamente nel momento in cui ho deciso di scriverne una così. Anzi,
quella di Erwin è molto più ricca di quanto mi attendessi: le
sue imprese come atleta della nazionale, poi la scelta di dedicarsi all’alpinismo,
il soccorso in Himalaya che gli è valso la medaglia d’argento
al valore dell’esercito, ed è conosciuto anche in Carnia per
aver aperto una via nuova sul Gamspitz; lui è già un campione,
ora sta a me il compito di farlo riconoscere anche a coloro che non l’hanno
mai incontrato.
Pare che tutto sia chiaro, invece non lo sarà per tutto il tempo in
cui ho preparato il libro e fino a quattro ore prima della sua presentazione
ufficiale avvenuta a Paluzza il 2 settembre 2006.
Il primo incontro con la famiglia
Maier, compiuto 17 giorni dopo il decesso del figlio, fu toccante e molto
difficile; non si poteva quasi parlare, tuttavia dovevo farlo, dovevo avvicinare
quella casa e quella causa, perché poco dopo sarei partita per il Belgio,
da dove diventava complicato potersi incontrare. La prima sorpresa fu che
la famiglia Maier abita in una via che porta il mio cognome.
Iniziai a raccogliere documenti, bollettini, comprare libri di alpinismo:
li trovai veramente interessanti e coinvolgenti. E scrivevo a ruota libera
su di lui, inventandomi tutto per esercizio e perché non avevo ancora
materiale specifico. Decisi di dare un titolo provvisorio al file che raccoglieva
quelle stupidaggini: il titolo è importante per identificare qualcosa
– è una prova di esistenza - ma quello era temporaneo. Scelgo
di mettergli l’altezza del monte fatale. Vado a cercare su internet,
è 3970, praticamente ripete i numeri della mia data di nascita. Altra
coincidenza?
Quel titolo rimase per molto tempo e per me affiancò quello ufficiale.
Due volte in quei mesi sulle
strade del Belgio ho incontrato Erwin; una volta aveva un motorino e un cappotto
col cappuccio marrone, io stavo cercando una direzione, lui mi ha sorriso
da sotto la pioggia, ed io poi ho preso quella strada lì vicino. La
seconda volta era vestito di grigio scuro con una tuta, o qualcosa del genere,
e stava seduto su dei gradini a fianco della strada, vicino ad una rotonda
di paese, anche quella volta ci siamo riconosciuti e io ho preso la strada
che lui mi ha accennato, che era quella giusta, tra le tante.
Nel dicembre del 2000 un lutto familiare imprevedibile, come lo sono tutte
le morti di ragazzi, mi fece volgere verso un angolo sconosciuto: lì
vi era spaesamento, vuoto, cercare ragioni e non trovarne, fino al non cercarne
più e solo lasciarsi trascinare dai giorni che mi portavano avanti,
così per due anni che si sono cancellati nella mia memoria, e forse
non li ho davvero vissuti perché ero da un’altra parte. Sicuramente
prossima ai ragazzi morti; a volte mi mandavano un segno tra le nuvole e le
colline. Capitavano dei giorni in cui l’accendino, l’accendigas
e la batteria dell’auto non funzionassero, e il giorno dopo tornassero
normali, o che a mezzanotte del giorno del compleanno di mio fratello la televisione
si spegnesse come morta, salvo funzionare il giorno dopo. E scosse elettriche
sulle braccia, dolori al capo. Speravo sempre che mio fratello si facesse
vivo con un messaggio sul telefonino o sull’e-mail, ma non mi scrisse
mai. Però lo sogno spesso, credo stia abbastanza bene dove vive adesso,
e tranquillo. Di Erwin non so. Ma mentre scrivevo di lui, mi fece compagnia
per anni. Io cercavo di uscire dalla convalescenza, lui a volte era maggiormente
presente, giorno e notte, anche eccessivamente e in un modo che qualche volta
mi turbava: divenni quasi lui, pensai come lui, sognavo come se fossi lui.
I sogni che compaiono nel libro sono i miei.
Intanto, sul fronte del libro
e sulla sua prosecuzione, cominciavano a palesarsi delle contrarietà.
I testimoni principali – che erano gli amici di Erwin – si dichiaravano
scettici o addirittura contrari al mio lavoro e non volevano collaborare nel
fornirmi le loro versioni o i resoconti delle imprese compiute in comune.
Di questa osteggiata fase potrete trovare un riepilogo quasi del tutto veritiero
nell’ultimo capitolo del libro. Il peggio doveva ancora venire, perché
la fidanzata per ragioni sue e con un’ostilità sorda, decise
di non concedermi nulla dei molti scritti e documenti di Erwin, in cui lui
descriveva le sue ascese e impressioni. Col tempo ottenni un parziale assenso
dei compagni di Erwin ad occuparmi delle vicende dell’amico, per le
quali essi contribuirono poi in modo determinante.
Tuttavia, la difficoltà a trovare sufficienti testimonianze, mi ha
obbligato a ricorrere all’attuale ibridazione nella narrazione (scrivere
una biografia romanzata è stato per certi versi accattivante, in quanto
mi ha offerto più libertà interpretative e diversi punti di
osservazione). Ciò l’ho fatto anche per proteggere la privacy
di chi mi domandava, di non essere coinvolto nel libro.
Fortunatamente i familiari furono molto collaborativi, e anche qualche amico
della cerchia più estesa che Erwin aveva - essendo un tipo estroverso
e piuttosto popolare e che perciò contava su innumerevoli simpatizzanti
- questi ultimi mi seguirono fino alla conclusione del libro e oltre.
Durante la prosecuzione del volume, alcune volte mi trovai ad un punto cieco, per cui decisi di abbandonarlo: d’altra parte se uno compie un esperimento ha buone probabilità di fallire, e questo rischio l’avevo accettato fin dall’inizio. Io stavo sfidando il buon senso il quale seleziona ad approfondire un certo soggetto innanzitutto quelli che già lo conoscono; il mio particolare approccio era invece di comprendere la montagna, da lontano. Dunque i momenti di arresto parvero definitivi, fino a che accadeva un fatto inconsueto: per mesi avevo atteso una lettera o una telefonata risolutiva, senza la quale il mio lavoro non poteva proseguire, ma ecco che un giorno o due dopo aver deciso di abbandonare la mia opera, il messaggio atteso mi giungeva, con buone notizie e informazioni, infondendomi nuovo vigore. Le difficoltà le trovai nella ricerca di un editore, poi nella messa a punto delle bozze, quindi nella corsa per la pubblicazione, nell’abbandono della casa editrice durante le promozioni e successivamente nel crudele tradimento di uno degli amici più intimi di Erwin che è diventato il suo nemico, nel voltafaccia di mezzo paese che per ragioni di opportunismo seguì una fazione avversa ad omaggiare a Erwin. Che dire di tutte questi ostacoli? Alla fine, seguendo il consiglio di una saggia persona lasciai che la Provvidenza provvedesse, senza angustiarmi oltre; e se abbiamo fatto veder la luce a questo libro malgrado le grandi difficoltà, è perché probabilmente doveva andare in questo modo.
Cionondimeno, il libro nel
suo formato finale, ha assunto una veste alquanto atipica e controversa, pur
essendomi orientata verso una rielaborazione della storia della sua vita.
Infatti, dopo aver percorso i passaggi di Erwin attraverso gli anni, la mia
conoscenza di lui si è approfondita (grazie a lui, grazie ai suoi amici,
grazie alla mai perseveranza). O forse non era lui di cui parlavo ma di un’immagine
mia. E in effetti, i personaggi si sono confusi notevolmente: Erwin è
diventato Nick ed io sono diventata Mirco. Quattro personalità che
in qualche modo s’intersecano e si sovrappongono. Due reali: Erwin (tratto
dai documenti originali e dalle testimonianze) ed io stessa. E due inventati:
la fiction avente per protagonista un Nick inventato, il quale sostituisce
in diversi episodi il vero Erwin, e Mirco che con la sua storia in qualche
modo interferisce con Nick.
Lo so che questi paiono essere argomenti eterei o bizzarri, e se mi sono decisa a rivelare queste implicazioni è perché li ho lasciati da parte qualche anno affinché le suggestioni si spegnessero: questa vicenda mi aveva eccessivamente coinvolta fino a farmi perdere i termini della realtà. Ma quale è davvero la realtà, o quante ne possono coesistere? A volte mi domando perché è accaduto a me dover far da tramite, o se lui volesse trasmettermi qualcosa di più profondo che non ho capito? Desiderava solo che raccontassi la sua storia? In fondo io ero davvero una sconosciuta per lui.
Negli ultimi anni non ho più
ricevuto messaggi dal mio angelo volante, o forse il mio equilibrio psico-emotivo
si è stabilizzato.
Un dubbio mi rimane. Se le tante parole che stanno confinate nel libro parlano
di lui, io ho l’impressione che una selva più densa di immagini,
pensieri e azioni sue, prema da qualche parte. Ma dove sono? Qual è
il messaggio?
A questo punto, è ragionevole
che mi domandi se attraverso questa ricerca durata un periodo non indifferente,
abbia trovato un altro inizio, delle rivelazioni, o la serenità che
cercavo. La risposta è molteplice. Sarebbe agevole catalogare gli avvenimenti
e adottare una definizione prossima, semplificare e risolvere. Spesso la realtà
sfugge e talvolta per tortuosi sentieri ricompare per suggerire un'altra interpretazione,
o la promessa di qualcosa. Nessuna risposta ancora, solo camminare avanti.