Commento critico al libro VOLARE SENZA ALI
Chissà se, nello scegliere
questo bel titolo (che del resto, salvo errore, ricava da un appunto del personaggio
biografato), l’autore ha avuto presente il significato metaforico dell’espressione
“volare senz’ali”. Espressione che, già in Boccaccio,
designa la pienezza dell’appagamento amoroso. Che la risposta sia positiva
o no, poco importa, più significativa restando la convergenza in una
medesima formulazione per significare due esperienze così diverse come
l’eros e l’alpinismo. Capita a chi scrive di svolgere attività
professionale collegata alla letteratura e, da molti anni ormai, di praticare
l’alpinismo a un livello che, pur dovendosi definire come non più
che medio per i tempi correnti, non gli ha impedito di ottenere qualche bella
soddisfazione. Dunque, penserà il lettore benevolmente disposto, costui
è in qualche modo titolato a parlare, per un verso e per l’altro,
del libro in questione.
Nemmeno per sogno, dico io. O meglio, non c’è ragione perché
le caratteristiche indicate debbano conferire una posizione di privilegio.
Perché una vicenda quale quella narrata in Volare senza ali ha certo
tutti i numeri per attirare qualsiasi lettore, non necessariamente esperto
dei fatti di cui il libro tratta: una vita giovane e intensa, pienamente vissuta,
e crudelmente spezzata per quello che è l’incubo di ogni alpinista,
il caso che si presenta sotto forma di scarica di sassi. Inoltre l’alpinismo,
che pure ha costituito una fetta cospicua delle esperienze del protagonista
del libro, è solo una delle componenti di un’attività
più generalmente aperta su molti versanti, che reclamano ognuno, giustamente,
il loro spazio. Ma, se il libro ha trovato un nucleo attorno a cui condensarsi,
questo è dovuto essenzialmente all’attività in montagna:
e non perché nella pratica di tale attività si sia sfortunatamente
interrotta la vita del protagonista.
Delle molte scelte che si presentano a chi si accinga a narrare una vita,
qualsiasi sia la direzione che tale vita ha preso, due sono senz’altro
le dominanti: il resoconto fedele degli avvenimenti che tale vita hanno intessuto
negli anni; oppure il travaso degli stessi avvenimenti in un ordito più
ampio e libero, che includa anche la licenza dell’invenzione. L’autore
sembra avere scelto questa seconda strada, ma è ben consapevole dei
trabocchetti che essa a ogni piè sospinto presenta. Da ciò deriva
la premessa, che volge “in chiaro” la vicenda per quanto riguarda
il personaggio e la sua famiglia di origine; ma anche la conclusione, che
offre ragguagli sugli amici e compagni del biografato. Per la prima (la premessa)
ogni aiuto è offerto dalla specificità delle indicazioni. Per
la seconda (la conclusione) al lettore sono offerti alcuni punti di riferimento,
che egli dovrà poi utilizzare nel modo giusto per potersi, novello
Pollicino, orientare a ritroso.
Si capisce che la seconda strada sia assai più delicata e difficile,
e forse la scelta sarà anche dovuta alla volontà dell’autore
di mantenere per questa sezione un velo di comprensibile riserbo: ciò
che, almeno per quanto mi riguarda, è degno della massima lode, in
un momento in cui la scrittura di montagna non disdegna talora, per malintesa
antiretorica, di assumere esibizioni sgradite dell’io e toni sguaiati.
Lo dico perché, sia pur in misura millesimale, anche l’io dell’autore
fa talora capolino, mantenendosi elegantemente su registri attenuati e attenti
all’ascolto (le brevi pagine che rievocano a distanza, con una sorta
di misterioso rimpianto postumo di cui il libro è risarcimento, l’unico
casuale incontro col protagonista). Comunque sia, e tornando al punto, per
chi ha saputo leggere con attenzione, e tanto più se ha una qualche
dimestichezza con l’ambiente di chi, in una forma o l’altra, pratica
la montagna, neppure l’impresa di sovrapporre alle maschere di amici
e conoscenti i veri nomi risulta impervia. Resta che l’offerta di queste
due percorsi di lettura complementari (l’indicazione esplicita da una
parte, la narrazione “a chiave” dall’altra) sembra indicare
che l’autore è stato a lungo indeciso sulla fisionomia da conferire
alla sua ricostruzione; e anzi, in questa indecisione ha pagato anche qualche
scotto, giacché nel libro a puntigliose ricostruzioni della multiforme
carriera sportiva del personaggio, che all’alpinismo è arrivato
dopo altre esperienze (sci di fondo, atletica leggera, ecc.), si alternano
scorci in direzione eccentrica, riguardanti per lo più l’ambito
psicologico, per definizione insondabile (soprattutto nell’alpinismo),
delle motivazioni. Naturalmente i due aspetti sono inscindibili, e sarebbe
sciocco lamentarne la coesistenza. Sta di fatto che, le due componenti formano
blocchi compatti e ben riconoscibili, con effetti, talora di squilibrio.
Volare senza ali narra la storia del carabiniere di Paluzza Erwin Maier (Nick
Maler nella ricostruzione semi-romanzata che ne narra le gesta), giovane di
non comuni doti atletiche ma anche, pare si possa dedurre, di notevole curiosità
per ogni aspetto dell’esistenza, che, dopo un tirocinio in parecchie
discipline sportive, tutte praticate con risultati buoni, speso addirittura
ottimi, si dedica con passione crescente, e eccellenti esiti, all’alpinismo.
Fino a quando, sulla salita che, più di ogni altra tra le grandi classiche,
è sottoposta alla ruota della fortuna, vale a dire sulla parete Nord
dell’Eiger, trova la morte. Il tragico culmine, narrato con l’allusività
e l’economia che non sempre caratterizzano le altre pagine del libro,
colpisce direttamente il lettore proprio in forza di queste due caratteristiche.
Solo chi sa la vicenda reale, o è pratico del modo di procedere in
cordata su difficoltà elevate o in zone di alto pericolo, capisce che
è accaduto l’irreparabile. Altrimenti, il procedere nervosamente
scorciato e il cambio di prospettiva fa sì che si sia condotti quasi
impercettibilmente, attraverso le impressioni “in soggettiva”
del compagno, a capire la morte in ritardo sul fatto, con effetto raddoppiato
di silenziosa tragedia. Sono queste tra le pagine più affascinanti
del racconto, insieme a quelle che narrano delle prime, rilevanti imprese
in montagna di Nick-Erwin. Vale la pena di sottolineare che il fascino non
è in relazione al grado di coinvolgimento che può avere il lettore
interessato (nella fattispecie chi scrive). Insomma quelle pagine non sono
efficaci perché parlano di montagna (o non solo per quello): ma perché
lo fanno in modo diretto ed economico, che si abbandona alla narrazione senza
dovervi sovrapporre altre motivazioni.
Purtroppo ciò non accade sempre: e talora, per lunghe pagine, il lettore
è condotto a misurare, cronometro alla mano, i progressi del protagonista
nell’atletica leggera, o la sua ferrea disciplina di allenamento in
altre pratiche sportive. Non che ciò che è lecito trattando
della montagna divenga illecito in altri ambiti. È che, semplicemente,
quando le scelte di Nick-Erwin virano verso l’alpinismo l’autore
partecipa quasi con gioia ai suoi progressi, al rafforzarsi dei suoi entusiasmi.
Tra le pagine più suggestive (e anche più laceranti) sono quelle
che descrivono con sobrietà l’amministrazione del dolore da parte
di coloro che sopravvivono al protagonista. Qui l’autore trova per incanto
la misura giusta, fatta di concisione e intelligenza dell’animo delle
persone, tanto per i familiari e gli amici quanto per l’ultima compagna,
ritiratasi a elaborare il lutto in solitudine, e il più lontano possibile
dai luoghi che possano ricordarle l’uomo da lei amato. Si vedano, nelle
pagine introduttive, la secchezza efficacemente nervosa che descrive lo stato
d’animo dei genitori e della disperata, indifesa sorella; nelle finali,
la difficoltà di trovare un giusto equilibrio negli incontri col compagno
sopravvissuto alla tragedia, difficoltà che misteriosamente si scioglie,
per le stesse incomprensibili ragioni per cui era nata.
Gli antichi scrivevano che una tragedia è tanto più capace di
attanagliare il pubblico quanto più direttamente confluisce verso la
sua fine. Naturalmente scopo dell’autore non è certo stato quello
di scrivere una tragedia; si potrebbe dire, al contrario, che la sua scommessa,
coraggiosamente intrapresa anche se non sempre vinta, è stata quella
di mischiarne i toni con quelli della banalità inafferrabile del quotidiano
che tutti ci fascia, e che è, a conti fatti, parte sempre troppo grande
dell’esistenza di ognuno. Ma resta che una maggiore armonizzazione tra
le parti, una più sorvegliata asciuttezza avrebbe contribuito a rendere
ancora più interessante, e nel suo genere memorabile, questo libro.
Che resta comunque un traguardo importante, per il quale bisogna essere grati
a chi, con impegno (e alta e rigorosa pazienza documentaria) lo ha scritto.
Lorenzo Segàla Assòm
UD 11-12-2006
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Cara Margherita,
il tuo libro, dal punto di
vista letterario, mi sembra un lavoro complesso, articolato secondo una unità
d’argomento e, nel contempo, con varietà di impostazione discorsiva:
a volte prevale la narrazione del personaggio (Erwin è soggetto dell’azione),
altre volte la riflessione su di lui (Erwin ne è oggetto); nella parte
finale tale impostazione è prevalente e, in qualche tratto, si avvicina
alla documentazione, lasciando sullo sfondo la rielaborazione.
Questa diversità stilistica crea un po’ di disomogeneità,
ma rientra nella scelta iniziale e fondamentale di fare un testo ad un tempo
di creazione e documentazione, rielaborazione soggettiva ed esposizione di
informazioni oggettive, sapendo di non poter scrivere una biografia o un romanzo,
ma una biografia romanzata o un romanzo storico, che è poi più
meno la stessa cosa. Personalmente, poi, mi sembra di percepire a volte una
specie di tuo sforzo, per mantenere l’equilibrio tra le due impostazioni;
in qualche caso mi sembra di percepire degli stacchi, che potrei anche intendere
come risultante di tagli, dettati da necessità estrinseche; in altri
casi delle descrizioni più dilungate.
Ma nel suo complesso, il lavoro finale, cioè il libro com’è
risultato, mi sembra un testo gradevole, a volte piacevole, a volte più
pensoso, a tratti con forte creatività letteraria, in altri quasi esclusiva
documentazione; ad ogni modo positivo. Personalmente, ho apprezzato soprattutto
alcune immagini letterarie inedite; leggere qualcosa di nuovo è come
fare un viaggio in terre sconosciute e si prova un sottile incanto. Questa
è, in breve e in sostanza, la mia valutazione.
Floriano Pellegrini (scrittore)
Zoldo Alto (BL), 6 novembre 2006
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Cara Dottoressa Margherita,
Le invio in allegato ciò che mi son risolto a scrivere, che potrebbe
costituire il prologo del Suo libro. Come Le dissi al telefono, Tiziano mi
ha consegnato la bozza sabato, e domenica avevo terminato di leggerla. Il
mio giudizio lo può trovare nelle parole seguenti; per quanto riguarda
il commento globale, ritengo Lei abbia compiuto un pregevole lavoro che attribuisce
ad Erwin Maier l’ onore che certamente meritava.
Luigi Federici
(Già Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri)
Udine, 3 luglio 2006
Prologo
Volare senza ali è un’opera
che ripercorre la vita intensa e straordinaria di un giovane carabiniere,
guidato sin dalla sua infanzia da una famiglia esemplare, dall’amore
sviscerato per la montagna e per la natura, e da un’intensa passione
sportiva.
L’Autore, con uno stile fluido, talvolta brioso e molto efficace, mette
in evidenza, attraverso le diverse esperienze del Protagonista, quanto sia
importante nella vita la determinazione, la forza di carattere, la sete di
conoscenza, la volontà di affermarsi, la consapevolezza che per raggiungere
il risultato è indispensabile il sacrificio. Mette inoltre a fuoco
i dubbi interiori di un giovane che deve scegliere il percorso della vita.
Nick/Erwin emerge dal romanzo come la più pura e genuina espressione
della sua terra, la Carnia che ha tanto amato, dove ha le sue radici e dove
torna tutte le volte che gli è possibile.
Carabiniere, riesce a conciliare il suo innato spirito di servizio con la
passione per l’alpinismo; è così che Nick entra a far
parte del prestigioso Soccorso Alpino Carabinieri di Cortina. E l’Autore
descrive con dovizia di particolari la vita del Protagonista, nel Tempio dell’alpinismo
italiano, il suo impegno a favore della gente, i profondi legami di amicizia
con i colleghi, la sua innata allegria, la sua fede negli ideali dell’Arma
e l’aspirazione a piantare le Bandiera Italiana e un gagliardetto dell’Arma
su una cima dell’Himalaya. Un’impresa, questa – efficacemente
“affrescata” dall’Autore M.Villa – la quale favorì
la mia conoscenza personale con Nick. Una telefonata dalla Farnesina il 12
nov. 1995, infatti, mi informò della straordinaria e determinante operazione
di soccorso svolta dai tre carabinieri, che avevano concluso con successo
la spedizione in Himalaya, a favore di un’altra spedizione travolta
da una gigantesca valanga sulle pendici dell’Everest. Fu così
che ebbi il privilegio di stringere la mano a Nick e di consegnare a Lui e
agli altri compagni di cordata la Medaglia d’Argento al Valore dell’Esercito.
Come sottolinea bene l’Autore, la “febbre” per la montagna,
la volontà di misurarsi con le difficoltà e il sogno di libertà
spingono il Protagonista verso altre imprese sempre più impegnative.
Ma la Montagna vuole per sé uno dei suoi figli prediletti, e spegne
drammaticamente i sogni di Nick sull’Eiger.
Tanti altri carabinieri come Nick raccoglieranno il testimone e continueranno
a scalare montagne per soccorrere chi è in difficoltà e per
un sogno di libertà innato nell’uomo.
Ho conosciuto la bella famiglia di Nick. Il Padre, uomo di montagna anche
lui. Aveva un legame speciale con Nick, viveva delle sue imprese e dei suoi
successi, la Madre, una donna semplice con una straordinaria forza morale,
era la pietra angolare della famiglia; la sorella, legata fortemente a Nick
anche per il comune amore per la montagna, era la più fragile e disperata.
Ma io sono certo che oggi Nick senza corde e senza chiodi vola sulle cime
più alte e più belle del mondo e sorride, con quella sua originale
collana portafortuna, soddisfatto perché un altro carabiniere e suo
intimo amico: Giorgio Di Centa, ha regalato una Medaglia d’Oro al suo
Paese, Paluzza, nelle recenti Olimpiadi Invernali.
Generale Luigi Federici